Se l'economia è l'arte di allocare risorse limitate tra usi alternativi al fine di massimizzare la propria soddisfazione, sembra proprio che la politica sia la tecnica per disperderne una specie (le informazioni) al fine di massimizzare la confusione altrui. Almeno in Italia, dove la campagna referendaria appena conclusa ha prodotto una straordinaria quantità di equivoci, malintesi e voci incontrollate a proposito dei quesiti sull'acqua pubblica, il n. 1 e il n. 2 dei quattro sottoposti al giudizio degli elettori domenica 12 e lunedì 13 giugno. Un esempio per tutti: la Guida al referendum del Corriere della Sera, un foglio non certo radicale, intitolava così la pagina dedicata al primo quesito: Privatizzazione dei servizi di fornitura dell’acqua. Preoccupati da casi tanto vistosi di trascuratezza nel riportare i fatti o deliberata malafede nel manipolarli, Andrea Boitani e Antonio Massarutto, economisti e collaboratori della rivista on-line La voce, hanno composto un dettagliato articolo di commento ai referendum stessi e alle tesi di chi ne sostiene l'approvazione. Chi ha votato sì al quesito n. 1 ha impedito la privatizzazione dei servizi idrici? Nient’affatto: l’art. 15 del D.L. 135/09 si limitava a introdurre l'obbligo di indire gare d'appalto -salvo eccezioni e deroghe, peraltro assai generose- per assegnare la gestione dei servizi pubblici. Tanto le vecchie norme quanto la nuova disciplina della materia (ora abrogata) assicurano al gestore la copertura dei costi, comprensivi degli investimenti; le modifiche introdotte riformavano soltanto i criteri di remunerazione del capitale investito (ROI), resi conformi al nuovo criterio di adeguatezza della remunerazione stessa (o full cost recovery), avversato da chi promuoveva il quesito n. 2. In ogni caso, concludono Boitani e Massarutto, l'aumento indiscriminato dei prezzi, la diminuzione della qualità e altri simili spettri non sono figli di una gestione privata, ma di una gestione sregolata, ossia priva di vigilanza e controlli; sembra pertanto che il vero banco di prova per qualsiasi modello di gestione dei servizi pubblici sia rappresentato dall'efficacia dei sistemi di controllo. Proviamo allora a delineare meglio il problema tenendo conto di questo suggerimento e dei principi della scelta razionale: noteremo che cercare di risolverlo significa domandarsi quanto sia favorevole ai cittadini il rapporto fra costi delle autorità di vigilanza e remunerazione del capitale investito nei diversi casi possibili, più che interrogarsi riguardo all'efficacia pura e semplice del controllore. Concludiamo poi con qualche parola a proposito di due interrogativi correlati al problema stesso: come definire i criteri di controllo e come ordinare le nostre preferenze in modo consistente.
Problema. Date due alternative sociali (I) e (II), scegliere quella che massimizza l'utilità di ciascuno degli agenti razionali che partecipano alla decisione.
Nel caso che ci interessa, secondo il consiglio ricevuto occorre istituire un "sistema di regolazione" tanto se (I) i servizi idrici sono amministrati da un soggetto pubblico quanto se (II) la loro gestione è affidata a privati (o società miste). Facciamo ora l'assunzione primaria che ci permetterà di proseguire la nostra riflessione:
Assunzione primaria: nel contesto da noi esaminato è ragionevole supporre che il principio di massimizzazione dell'utilità prevista in condizioni di incertezza sia declinato come segue: l'alternativa (II) risulta conveniente per i cittadini-consumatori solo a patto che gli oneri previsti a loro carico siano inferiori a quelli calcolati per (I).
Ingerita la pillola (per ulteriori chiarimenti, rimandiamo a questa pagina; chi non fosse ancora convinto può sempre navigare qui o qui, ma a suo rischio e pericolo), le assunzioni successive appariranno forse meno problematiche:
A) vi siano due sistemi di regolazione, uno per ciascun caso (chiamiamoli per comodità autorità di controllo I e autorità di controllo II);
B) al netto della remunerazione del capitale investito (ROI) la struttura delle tariffe praticate in (I) e (II) sia identica (includendo in un caso come nell’altro costi operativi di gestione, costi comuni e costi di capitale indipendenti dal fatto che il gestore sia pubblico o privato e addebitati agli utenti per legge: v. sopra); indichiamo con k la differenza fra ammontare complessivo delle tariffe e ROI;
C) la remunerazione del capitale investito (ROI) sia distinta nei due casi e in particolare sia più alta per il caso (I). In effetti, la necessità di riconoscere una equa remunerazione del capitale investito da un'azienda privata è pacifica nella letteratura: in caso contrario l'impresa non riceverebbe un prezzo equo per il suo prodotto o servizio, e la determinazione tariffaria si risolverebbe in un atto di espropriazione, ma una medesima necessità deve essere riconosciuta non solo - per motivi evidenti - anche a gestori nel cui capitale partecipino azionisti privati, ma anche ad aziende a proprietà pubblica. In caso contrario, esse non sarebbero infatti in grado di trovare finanziamenti adeguati per i propri investimenti, e verrebbe in tal modo vanificato lo scopo del Legislatore che con la Legge 36/94 [la vecchia legge Galli citata nell’articolo] ha inteso (…) porre fine alle condizioni di sottoinvestimento che hanno storicamente caratterizzato il settore (1). Come rispondere a questa comune necessità? Possiamo distinguere due inconvenienti opposti a cui porre rimedio:
1. e 1. Se (…) la remunerazione del capitale di un'impresa sottoposta a regolazione tariffaria risultasse sensibilmente inferiore al rendimento medio di mercato che un investitore potrebbe ottenere investendo il proprio capitale in attività reali o finanziarie aventi caratteristiche di durata e di rischiosità similari, esso verrebbe "espropriato", mediante un provvedimento amministrativo, del reddito che avrebbe potuto ottenere investendo altrove le proprie disponibilità.
2,e 2. Specularmente, se la remunerazione del capitale risultasse sensibilmente superiore a quella di mercato, ciò si tradurrebbe in un danno per gli utenti del servizio (1).
Il problema 2. è comune a (I) e (II), ma il problema 1. è meno grave per (I), in quanto un investitore pubblico, a differenza di uno privato, può includere nella remunerazione del capitale anche l’aumentato consenso sociale (ed elettorale) che deriverebbe da un’efficiente gestione del servizio idrico e compenserebbe la differenza rispetto al rendimento medio di mercato, che un investitore potrebbe ottenere investendo il proprio capitale in attività reali o finanziarie aventi caratteristiche di durata e di rischiosità similari. Naturalmente, se l’investitore pubblico contraesse debiti con una banca privata, quest’ultima concederebbe prestiti comportandosi a tutti gli effetti come un privato (!) e non si accontenterebbe di avere come garanzia un aumentato consenso sociale ed elettorale verso l’ente pubblico (anche se forse non sarebbe del tutto insensibile a vantaggi di questo genere), ma almeno la parte di ROI calcolata per la porzione di investimenti coperta con soldi pubblici potrebbe essere inferiore al rendimento medio di mercato visto sopra; la ROI calcolata per la porzione coperta da capitali privati resta invece sottoposta, com’è ragionevole, ai soli criteri di mercato in (I) come in (II). Concludiamo quindi che ROI (I)<ROI (II).
D) i cittadini-consumatori siano indifferenti tra pagare una tassa a un soggetto pubblico e corrispondere l'importo di una bolletta a un privato; in realtà, per ammissione degli autori stessi dell’articolo gli utenti non sembrerebbero essere proprio indifferenti tra le due alternative, ma l’argomento è delicato e richiederebbe evidenze non solo aneddotiche; resta il fatto che l’opinione pubblica è spesso disposta a tollerare dal pubblico disfunzioni che mai tollererebbe da un privato. L’acqua del sindaco, chissà perché, è sempre ottima e abbondante, anche quando fa schifo (sic!).
Tutto ciò premesso, (II) è quindi preferibile se e solo se vale la relazione
c I + k + ROI (I) > c II + k + ROI (II)
ossia
c I + ROI (I) > c II + ROI (II)
(dove c I= costi dell'autorità di controllo I; c II= costi dell'autorità di controllo II; k= differenza fra ammontare complessivo delle tariffe e ROI (cfr. assunzione B)).
Distinguiamo quindi tre casi:
A) c I=c II. Poiché per definizione ROI (I)<ROI (II), conviene (I).
B) c I<c II. A fortiori conviene (I).
C) c I>c II. Abbiamo tre sottocasi:
i) (c I-c II)<[ROI (II)-ROI (I)]. Conviene ancora (I).
ii) (c I-c II)=[ROI (II)-ROI (I)]. Data l'assunzione D), le alternative si equivalgono e per il principio di risoluzione è possibile scegliere tanto l'una quanto l'altra.
iii) (c I-c II)>[ROI (II)-ROI (I)]. Conviene (II). Risolvere il problema significa pertanto chiedersi quanto è probabile che la differenza tra i costi delle due autorità di controllo sia grande abbastanza da superare quella tra le due ROI, ossia che si verifichi iii).
Se però vogliamo caratterizzare il problema in modo prescrittivo, dobbiamo considerare che nel settore idrico le possibilità di sfruttare la concorrenza sono limitate alla fase di affidamento del servizio (da quattro a dieci volte in un secolo, diciamo), ma una buona regolazione può aiutare non poco. Se la regolazione è costruita in modo che il profitto rappresenti l’eventuale premio per l’impresa che si dà da fare per ridurre i costi, il cittadino ne può trarre beneficio. Ma ridurre i costi non significa soltanto migliorare le tecnologie; può anche significare licenziamenti o assenza di investimenti ulteriori: Se le gestioni sono vincolate a recuperare i costi con le tariffe, una diminuzione di queste può aversi solo se i costi diminuiscono, ossia se la gestione diventa più efficiente (usa meno personale, acquista meno servizi o tecnologie meno costose), oppure se non si fanno gli investimenti. Appunto: ma introdurre criteri efficienti per separare le riduzioni dei costi virtuose dal taglio puro e semplice degli investimenti e farli rispettare richiede uno sforzo economico notevole, e questo aumenta i costi delle autorità di controllo. L’impatto è più cospicuo nel caso (II), probabilmente, che nel caso (I): un privato considererà la diminuzione del personale (a parità di servizio reso) un esempio di riduzione virtuosa, ma un ente pubblico dovrà ponderare con più attenzione anche le conseguenze sociali di questa scelta. A questo proposito, la nostra assunzione fondamentale non impone che gli oneri a carico dei cittadini-consumatori siano di natura esclusivamente personale: possiamo immaginare senza difficoltà casi in cui l’utilità prevista è associata a benefici (e costi) per la collettività intera, alla maggiore o minore uguaglianza tra i cittadini, al diritto al lavoro, ecc., ma a condizione che le preferenze così determinate siano consistenti. Ad esempio, garantire a tutti un prezzo politico per il consumo di acqua potabile comporta la rinuncia a investire più soldi pubblici in altri settori, dal welfare all’istruzione, oppure ad altri obiettivi socialmente desiderabili (mantenimento o riduzione della pressione fiscale, ecc.): i cittadini devono sapere che acqua gratis non significa non pagare dazio, ma significa meno spesa pubblica in qualche altro capitolo o più tasse -e chi assicura che la fiscalità generale sia più equa di un mercato che premi i consumatori virtuosi? Eppure, nei commenti all’articolo -e non solo- molti tentano di sfuggire all’inconsistenza delle proprie preferenze obiettando che sarebbe possibile ottenere risorse per tutto (e tutti) attraverso un’efficace lotta all’evasione fiscale: questo significa però considerare una diversa matrice di decisione, la quale comprende l’allocazione di risorse ipotetiche oltre a quelle di cui si dispone con certezza. Ma allora occorre stabilire un modo per valutare la probabilità che le prime siano un giorno a nostra disposizione come le seconde: non indicarlo –o indicarlo male– comporterebbe problemi pubblici ben più gravi dell’inconsistenza delle preferenze individuali.
(1) L. Prosperetti, La remunerazione del capitale investito nel quadro della determinazione delle tariffe idriche: alcune riflessioni.
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